Nel suo nuovo romanzo Carrisi costruisce un labirinto emotivo fatto di silenzi, percezioni e verità che mutano a ogni sguardo.
C’è qualcosa di unico nel modo in cui Donato Carrisi, con La bugia dell’orchidea, trasforma la narrazione in un territorio dove è impossibile orientarsi completamente.
In questa intervista Donato Carrisi mette in chiaro quanto la sua idea di narrazione scardini le regole del thriller tradizionale.
L’incontro, che sarà presto disponibile integralmente su YouTube, conferma ciò che i lettori sanno già: le sue storie sono realizzate, con rara lucidità, come trappole emotive.
La poetica dell’inquietudine: come Carrisi costruisce ciò che non si vede
Parlare con Carrisi vuol dire avvicinarsi a una visione rigorosa di ciò che la narrativa può fare. Per lui il thriller non è un codice da seguire, ma il modo più autentico per interrogare la realtà.
Nei suoi libri — e La bugia dell’orchidea lo rende evidente più che mai — l’identità è fragile, la realtà è scivolosa e l’orrore non arriva mai urlando: si insinua.
“Devo entrarti nella testa.”
È questa la soglia che, per lui, ogni storia deve varcare.

Per Carrisi non si tratta di descrivere elementi impalpabili, come un silenzio o un odore, ma di farli percepire, provocando nel lettore un’esperienza sensoriale. Una reazione fisica, quasi involontaria.
La via per ottenere quest’effetto non è caricare la pagina di dettagli: serve dosare ciò che si mostra e ciò che si lascia intravedere, perché è lo spazio lasciato all’immaginazione del lettore a generare la reazione più forte.
Ed è così che il silenzio, nei suoi romanzi ma in particolare in questo, smette di essere assenza. Non è calma, né un’attesa generica: è un ambiente instabile, in cui il lettore perde l’equilibrio quando i confini della storia iniziano a muoversi.
Un silenzio che non pacifica, ma amplifica tutto ciò che non riusciamo a definire, come un’eco priva della sua fonte.
La bugia dell’orchidea: la verità come inganno
Parlando del nuovo romanzo, La bugia dell’orchidea, pubblicato come sempre da Longanesi, emerge chiaramente l’obiettivo dell’autore: non raccontare un fatto, ma farci dubitare di ciò che consideriamo “un fatto”.
La vicenda parte da una strage familiare. Basterebbe questo per costruire un thriller tradizionale.
Ma Carrisi non si accontenta. Prende gli stessi elementi e li smonta più volte, costringendo il lettore a scoprire quanto sia facile credere alla prima versione solo perché è la prima che si ascolta.
In un passaggio illuminante dell’intervista dice: “Non siamo interessati alla verità. Siamo interessati alla novità.”
E questo è il cuore del romanzo: non siamo noi a scegliere la verità; è la verità che sceglie la forma più convincente al momento giusto. Il libro non mira a dare risposte, ma a mostrare quanto sia instabile il terreno su cui camminiamo.

Crederci o non crederci: il gioco più rischioso
In La bugia dell’orchidea, il tema del credere è ovunque. Credere ai fatti. Credere all’apparenza. Credere a ciò che non si può dimostrare.
Alla domanda se lui, personalmente, si orienti verso la fede o l’agnosticismo, Carrisi ha sorriso: “A volte credo, a volte no.”
Una risposta che sembra un manifesto. Nel suo universo narrativo, credere non è un atto spirituale: è una responsabilità del lettore, che deve scegliere di esporsi. Perché credere a una storia significa accettare che quella storia, in qualche punto scomodo e nascosto, ci riguarda.
La paura come bussola del reale
Tra i passaggi più rivelatori dell’intervista, c’è la riflessione di Carrisi sulla paura.
Non paura come istinto primitivo, ma come strumento cognitivo e percettivo.
“È uno dei due sentimenti che ci fa battere il cuore, insieme all’amore.”
Per lui la paura è un modo per riconoscere il mondo, non per evitarlo. È un filtro che fa emergere ciò che normalmente ignoriamo: la banalità del male, la fragilità dell’identità, gli angoli ciechi del quotidiano.
Ed è su questa smagliatura, questa piccola fenditura nella normalità, che Carrisi costruisce le sue storie. Lì dove qualcosa non torna ma non sappiamo dire cosa. Lì dove il lettore si rende conto che si è ormai consegnato alla storia.
Sul ruolo dei librai
“La vita non te la cambia il fattorino che ti porta il libro a casa. Te la cambia il libraio.”
Il riconoscimento che Carrisi conferisce ai librai va oltre la gratitudine. Per lui il libraio è un complice narrativo: qualcuno che rischia la propria credibilità ogni volta che consiglia un libro.
Ed è stato proprio un libraio, anni fa, a mettergli tra le mani un libro decisivo: da quella lettura Carrisi capì che la scrittura non era un’ipotesi, ma una direzione.
Non è un aneddoto romantico: è la presa d’atto di un rapporto silenzioso ma decisivo. Quello per cui lo scrittore crea la storia, ma è il libraio a farle trovare il suo lettore.
Carrisi lo dice chiaramente: le storie non procedono per conto loro. Hanno bisogno di qualcuno che le riconosca e le consegni al mondo.

Un libro che chiede di essere attraversato
La bugia dell’orchidea non è un romanzo pensato per essere “consumato”. Vuole essere un’esperienza che chiede partecipazione, dubbi, resistenza.
Carrisi lo dice apertamente: ciò che resta non è la trama, ma la sensazione. Una sensazione che ha a che fare con lo spaesamento, con il non capire fino in fondo, con la percezione che la storia abbia oltrepassato una soglia senza che ce ne accorgessimo.
Il libro si chiude con una promessa sottile: ogni lettore uscirà con un segreto. Il segreto della storia, ma anche il proprio.
L’incontro con Donato Carrisi ha lasciato domande aperte, suggestioni e quella particolare vibrazione che i suoi libri sanno generare.
E questa è solo una parte di ciò che ci ha raccontato: l’intervista completa è disponibile sul nostro canale YouTube Authority, QUI, dove sarà possibile riascoltare ogni passaggio, ogni sfumatura, ogni esitazione che rende unico il suo modo di parlare di storie.

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