Donne in libreria: una fotografia del mestiere di “libraio”
Entri in una libreria in un giorno qualunque: dietro il banco trovi una donna. Succede nelle indipendenti, nelle librerie di catena, in quelle di quartiere e in quelle grandi come piccole stazioni culturali. Sistemano scatoloni, consigliano lettori incerti, gestiscono arrivi, resi, richieste, messaggi.
È un’immagine naturale, alla quale siamo da tempo abituati. Ma ciò che appare naturale merita sempre una domanda.
Alcune analisi di settore e fonti associative, ampiamente circolate, stimano che circa il 72% di chi lavora in libreria sia donna. È un dato suggestivo, ma non semplice da verificare: le rilevazioni ufficiali tendono a raccogliere insieme librerie, edicole e altri esercizi non specializzati, rendendo difficile distinguere la fotografia reale del settore.

Qui interviene qualcosa che Caroline Criado Perez osserva con forza in Invisibili (Einaudi): in un mondo costruito a misura maschile, spesso mancano proprio i dati sulle donne. Mancano nelle statistiche mediche, nella progettazione degli spazi, nelle tecnologie e, più in generale, nella comprensione dei loro bisogni e delle loro attività. La conseguenza è un vuoto sistemico: ciò che non viene misurato tende a non essere visto, e ciò che non è visto fatica a essere riconosciuto come rilevante.
Perez mostra come questo “buco informativo” attraversi settori molto diversi, dai trasporti alla ricerca farmacologica, fino alla vita quotidiana. È un’assenza così radicata da diventare impercettibile. Non stupisce, quindi, che anche le librerie sfuggano a una misurazione chiara: il lavoro culturale svolto in questi spazi è affidato all’intuizione più che a indicatori oggettivi, e la componente femminile rischia di essere letta come “naturale” invece che come il risultato di dinamiche storiche e sociali precise.
Basta visitare qualche libreria per accorgersi che la presenza femminile è quasi un tratto del mestiere. La cosa interessante è che questa prevalenza si ritrova anche nel pubblico.
Secondo i dati 2025 dell’Osservatorio AIE sulla lettura, presentati a Più libri più liberi, legge almeno un libro nell’anno il 76% della popolazione fra i 15 e i 74 anni.
Il divario di genere è netto e stabile: le lettrici sono l’81% della popolazione femminile, i lettori il 72% di quella maschile.
Se le donne leggono più degli uomini, con quasi dieci punti percentuali di differenza, è naturale che una parte significativa del lavoro librario si intrecci alle loro voci, ai loro sguardi, alle loro attese.

Ma numeri e impressioni da soli non bastano. Il mestiere del libraio – o, sempre più spesso, della libraia – è un lavoro complesso, fatto di relazioni, ascolto, interpretazione delle esigenze dei lettori, cura dei cataloghi, comprensione degli spazi e dei tempi. È un mestiere che richiede attenzione, sensibilità, intuizione e, talvolta, la capacità di “leggere tra le righe”.
Sono competenze preziose, ma storicamente associate al femminile più che al maschile. Non perché le donne “siano fatte così”, ma perché la cultura attribuisce loro da sempre ruoli di cura, anche quando la cura è culturale.
Questo apre a un secondo livello di lettura: quello economico.
Azzurra Rinaldi, in Le signore non parlano di soldi (Fabbri), analizza la discriminazione economica di genere, la violenza economica e il peso della cura non retribuita sulle donne. Ma soprattutto mostra come le professioni percepite come vocazionali o di relazione vengano spesso svalutate economicamente, anche quando richiedono competenze complesse.
Il lavoro in libreria rientra in questa logica culturale: è un mestiere bellissimo e delicato, ma non sempre riconosciuto nella sua piena professionalità.


C’è anche un’eco lontana che attraversa la storia del lavoro femminile.
In Artemisia (Mondadori), Anna Banti racconta la figura della pittrice Artemisia Gentileschi, “valentissima” artista seicentesca che difese il diritto al lavoro congeniale, cioè scelto, affine, coerente con il proprio talento, e rivendicò una “parità di spirito fra i due sessi” nella pratica artistica.
Nel romanzo, l’autrice e la protagonista si ascoltano e si raggiungono a distanza di secoli, e in questo dialogo risuona una domanda: quando le donne trovano uno spazio nel lavoro culturale, lo fanno per caso o per vocazione? Per necessità o per scelta?
Molte libraie, nel loro quotidiano, sembrano muoversi proprio dentro questa continuità: un lavoro scelto, non imposto. Un lavoro costruito con ostinazione e cura.
La questione non riguarda solo chi lavora nelle librerie, ma il modo in cui il nostro Paese in particolare valorizza o non valorizza i talenti femminili.
Il volume Talenti alla pari (Edizioni Lavoro), a cura di Silvia Pellegrini, fresco di stampa, ricorda come l’Italia abbia una delle percentuali più basse di donne occupate in Europa e come sia urgente attrarre, trattenere e sostenere le competenze femminili, anche attraverso reti professionali, politiche di welfare, strumenti di conciliazione vita-lavoro e il superamento di bias cognitivi che frenano le carriere.
Per il settore del libro, riconoscere la professionalità delle libraie significa riconoscere un talento culturale che il Paese dovrebbe valorizzare e sostenere.

Allora la domanda iniziale torna a galla, con maggiore complessità: Il mestiere del libraio è donna?
Forse sì, ma non per destino.
Per una serie di condizioni culturali, economiche, storiche e professionali che hanno portato le donne a occupare e a tenere vivo uno spazio prezioso nella filiera del libro.
Un mestiere fatto di gesti quotidiani e di responsabilità poco visibili, di cura culturale e di scelte ponderate, di ascolto e di costruzione di comunità.
Raccontarlo significa riconoscere che, dietro al banco di una libreria, non c’è solo un lavoro: c’è un filo sottile che lega passato e presente, una competenza che cresce nel tempo, una forma di presenza costante ma poco osservata.
Forse è proprio questo il punto: cominciare a guardarla davvero.

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