L’estate e il suo solstizio, l’estate quando diventa bollente, l’estate con i suoi tormentoni, così facili, così ballabili, così incisi nella memoria; l’estate con la sua idea di felicità. L’estate degli amori potenti e improvvisi, dal destino già segnato.
Come dice bene Alessandro Vanoli, che all’estate ha dedicato l’ultimo di quattro libri dedicati alle stagioni (ESTATE. PROMESSA E NOSTALGIA, il Mulino), siamo tutti d’accordo che “al principio c’è il calore. Quello definito, forte e violento di una stagione piena; quello che si oppone al gelo dell’inverno… Quel calore che segna il tempo delle messi mature, della terra arida e delle notti luminose”.
Ma, si chiede Vanoli che cosa significava l’estate per i nostri più lontani antenati?
A Gerico, in Palestina, un giorno qualsiasi di diecimila anni fa, estate divenne un campo di grano da mietere. E questo semplice evento segnò l’inizio del Neolitico, quando gli esseri umani da cacciatori-raccoglitori divennero stanziali e posero le basi delle future civiltà.
Così, passando per l’Egitto, l’antica Grecia, il medioevo e l’età moderna, Vanoli ci accompagna nel lungo viaggio dell’estate, dall’antichità ai giorni nostri, dal tempo in cui la natura era percepita come padrona indiscussa all’oggi, in cui l’uomo si illude di averla domata.
Cerchiamo l’estate anche in altri libri. LA BELLA ESTATE di Cesare Pavese, che include anche i romanzi brevi Il diavolo sulle colline e Tre donne sole, si apre così: “A quei tempi era sempre festa”. Eppure, quest’affermazione, all’apparenza positiva, nasconde una ferita: la bella estate, sa bene Pavese, non è destinata a durare, e per questo diviene rimpianto, simbolo di una ferita da sanare e di un vuoto da riempire.
Melissa Harrison, talentuosa scrittrice britannica, con L’ARIA INNOCENTE DELL’ESTATE ci porta invece nella campagna inglese dei primi anni Trenta, dove la vita è dura e il paesaggio rurale è punteggiato da comunità impoverite e timorose. È con l’avvicinarsi del tempo del raccolto, che la giovane Edith Mather, ammaliata dalla giornalista Constance FitzAllen, giunta da Londra per scrivere sugli usi e i costumi dei contadini del luogo, imparerà a dosare meglio la fiducia e si ricorderà per sempre quell’estate dei suoi quattordici anni, durante la quale si era salvata da un possibile disastro.
È nata in un giorno di neve Norma, protagonista de IL PRIMO SOLE DELL’ESTATE, di Daniela Raimondi, ed è cresciuta in una casa fredda. Per questo adorava passare le estati a Stellata, dove trovava, insieme al calore del sole, quello dell’affetto e delle storie della nonna. È lì che ha conosciuto Elia, con il quale ha diviso i giochi da bambina, e da cui ha voluto separarsi quando l’infanzia ha ceduto il passo all’adolescenza e si è accorta di provare per lui nuovi sentimenti. Ma ci sono estati che segnano per sempre e, forse, Norma e Elia sono destinati a incontrarsi ancora.
Tutt’altro il tenore dell’estate di DIARIO DI UN’ESTATE MARZIANA, in cui Tommaso Pincio (pseudonimo con cui si firma Marco Colapetro, italianizzando lo scrittore postmoderno Thomas Pynchon), passeggia per la sua città, Roma – un romano che cammina per Roma, tra l’altro, ha già di per sé un che di sovversivo, di marziano – quando la città bollente si è ormai svuotata dei suoi cittadini, fuggiti per le vacanze. Così, poggiando lo sguardo sulla polvere delle cose, con amabile malinconia compie una passeggiata nel tempo, oltre che nello spazio, in compagnia di Ennio Flaiano, tra attori e attrici famose, bellezze in cerca di notorietà, paparazzi, Vespe che sfrecciano e intere, lunghe nottate che sempre vanno a finire in un’estate che si rimpiange anche mentre la si vive.